di Gianni Petrosillo, presidente Sunifar
Mi è stato chiesto recentemente di intervenire sul tema della desertificazione sanitaria e sono così stato spinto a qualche riflessione che mi sento qui di rielaborare.
Il tema è ormai noto in tutte le sue implicazioni sociali, ambientali e culturali oltre che sanitarie, che riguardano soprattutto le aree interne, ma non solo quelle. In realtà è
una delle maggiori criticità nel quadro generale della sanità.
Con la pandemia sono venuti al pettine i vecchi nodi: la carenza organizzativa a livello territoriale (cui il sistema ha fino a ora risposto con l’eccellenza ospedaliera), si è investito poco o nulla nella prevenzione, si è trascurata la programmazione territoriale, il cui conto è stato soprattutto a carico dei pazienti cronici e fragili, con un chiaro maggior svantaggio per chi risiede nelle aree più isolate del Paese.
La risposta a tutto questo sono le case della comunità? Forse no. Il dubbio nasce dalla constatazione che si tratterebbe di
un modello organizzativo che continua a essere lontano dal paziente; ci sarà qualche cittadino più fortunato, ma i residenti delle aree ora sguarnite dovranno continuare a fare i pendolari dell’assistenza; qualche beneficio quindi in termini di decongestionamento dei centri ospedalieri, ma non una risposta ai problemi della prossimità.
Credo che per assicurare l’assistenza di base nei piccoli borghi
servano le reti di professionisti (farmacie, ambulatori medici, infermieri) che siano a fianco del cittadino e, semmai, che facciano da riferimento per il territorio verso le altre strutture sanitarie.
Le farmacie già ci sono come rete, collegate telematicamente fra loro e con il SSN, a coprire tutto il territorio nazionale, con una dimostrazione di efficienza (vedi tamponi, vaccini,
green pass e molto altro ancora), con una propensione a investire sulle proprie strutture (vedi la partecipazione al bando per l’assegnazione delle risorse del PNRR).
La Missione 6 del PNRR cita la casa della comunità come primo luogo di cura. Ebbene, perché la farmacia non può costituire un
punto spoke di riferimento e di erogazione di primi servizi in prossimità, in rete con gli altri professionisti della salute e in collegamento con le strutture centrali del SSN (gli
hub)? Si potrebbero incoraggiare percorsi virtuosi del paziente facendo prevenzione, monitorando i profili di cura e delle terapie farmacologiche, fornendo servizi di prima necessità, possibilmente, facendo finalmente leva sul FSE come strumento di scambio di informazioni.
E qui il pensiero va alla carenza dei medici. La cronaca più recente si sta occupando dei medici a gettone negli ospedali, ma i MMG mancano anche sul territorio e
dove manca la medicina primaria prima di tutto soffre il cittadino e secondariamente si indebolisce la farmacia; altro motivo per studiare bene le prossime scelte.